LA LEGGENDA DEI CERVI PURPUREI

LA LEGGENDA DEI CERVI PURPUREI

Daniela Meggiolaro

Eleion era nato all’inizio della primavera, in una notte ancora fredda e senza luna. Era nato nella parte più lontana della foresta, dove i tronchi di abeti centenari erano fitti e ricoperti di licheni, dove il silenzio era punteggiato dallo scricchiolio dei rami vecchi appena mossi dal vagare dell’aria. Eleion era nato dal sogno della cerva purpurea che gli uomini chiamavano Ashanti, nome che nella lingua degli uomini significa “La libera”. Per quale incantesimo, per quale sequenza di eventi terrestri o astrali, per quale accidente di impensabili coincidenze fosse alla fine accaduto che il sogno della cerva diventasse un essere vivente, nessun uomo della tribu’ poteva spiegarsi, ma nessun uomo della tribù neppure desiderava spiegare, tanto la natura di quegli uomini era da tempi immemorabili assuefatta ad accettare il mistero, l’imponderabile ma immenso potere dell’ignoto. Ashanti, la cerva purpurea dal pelo lucido, corto e fitto, dalla testa nobile, dai lunghi arti forti e scattanti, aveva trascorso già molti inverni e molte primavere nella foresta Elevata, aveva atteso il giorno del suo passaggio, meditando nelle sere tiepide vicino alla radura grande. Sapeva che un giorno sarebbe passata oltre, oltre un punto di non ritorno e verso il suo destino. E tutto questo lo sapeva senza pensare alcun pensiero, senza pensare parole come fanno gli uomini. Lo sapeva come se possedesse un sapere allo stato puro. Ashanti, dopo molti inverni nella foresta Silenziosa, dopo molte primavere nelle steppe ondulate, un giorno che sembrava un giorno qualsiasi si fermò a lungo sulla sua roccia ad attendere il cambio dal vento, come sempre faceva, e finalmente sentì che il momento del passaggio era arrivato. Il vento cambiò, venne da Sud, come faceva ogni mattina quando il sole passava sopra la linea dei larici, ma non portò con sé la solita gazza loquace, non portò l’irrefrenabile voglia di lanciarsi nella corsa giù per il pendio. Questa volta portò il peso di una scelta, il peso di un compito da svolgere. Ashanti lo sentì e si diresse lentamente, ancora una volta, nel folto della foresta, vicino all’anfratto muschioso che di notte le dava riparo tra le rocce avvolte da possenti radici. Passò il giorno e passò la notte, passò ancora il giorno e quando venne la notte finalmente Ashanti si addormentò e poi sognò: nel chiarore lunare, tra i rami, vedeva vagare i lupi. Nel chiarore lunare, all’imbocco della piccola caverna giaceva un animale indifeso, un cerbiatto fulvo dalle esili zampe lunghe e sgraziate, il cui alito si condensava nell’aria fredda della notte. Ashanti allora udì l’ululato del predatore, vicino, troppo vicino, aprì gli occhi e scattò in piedi col cuore in tumulto. Sotto di lei giaceva un cerbiatto neonato dal pelo corto e soffice, la grossa testa, gli occhi chiusi, le lunghe zampe appena frementi: l’essere che dal sogno suo era nato, Eleion.

Era la prima luna di primavera e Ashanti divenne la madre del figlio del sogno. Lo nutriva con il latte che rendeva gonfie le sue mammelle. Lo scaldava nelle notti di pioggia col calore del proprio corpo. Lo guidava nella foresta del Silenzio fino alle radure erbose e alle anse del torrente per dissetarsi. E, nella lingua silenziosa dei cervi purpurei, una lingua fatta di soffi, cenni degli occhi, scricchiolii dei denti, mosse del capo e delle orecchie, passi di danza e altro ancora, Ashanti parlava ad Eleion della vita, ossia della foresta, dei lupi, dell’erba, delle rocce, dei germogli e molto altro ancora. Passarono così molte lune e il soffice pelo biondiccio di Eleion divenne un lucido mantello porpora scuro, le sue zampe esili divennero solide, robuste e scattanti leve che scagliavano il giovane cervo di roccia in roccia. Ma col finire della stagione dell’erba anche la quiete della stagione giovanile per il figlio del sogno svanì.

Nella notte già molto fredda Ashanti ed Eleion vegliavano, cogliendo presagi portati dall’aria foriera di polvere e odori di insetti in fuga, dai rumori di foglie, steli d’erba e rami spezzati, dai proclami di uccelli notturni. Tutto questo ascoltarono e molto altro ancora, con le orecchie frementi di timore. Infine, d’un tratto, sentirono il silenzio assoluto, il silenzio nemico che è uno strappo nelle maglie della natura. Scattarono entrambi fuori dall’anfratto roccioso, Ashanti alla guida della fuga turbinosa dall’imminente pericolo. Dal silenzio esplose un rauco boato e la terra prese a tremare, mentre polvere e sassi scesero dalla montagna. I cervi fuggirono verso il crinale del monte mentre uccelli si alzavano nel cielo livido e volpi, marmotte e lepri spuntavano impazzite dalle loro tane. La terra tremava, grandi alberi malati si spezzavano, massi rocciosi e ghiaia scorrevano verso valle e nuove fratture si aprivano sui fianchi della montagna, che gemeva e strideva come percossa da una potenza malvagia. Ashanti ed Eleion correvano affiancati, a poca distanza tra loro ed erano quasi giunti al crinale del monte, oltre il limite della foresta. Gli abeti si erano diradati, ora vi era solo prato, ora sotto i loro zoccoli vi era solo un basso tappeto di erbe spinose, ora finalmente stavano per giungere al declivio del giogo che si stagliava contro il cielo pallido degli albori, quando ancora un boato scosse la terra e le viscere degli animali. La terra rispose spezzandosi e un’ampia frattura serpeggiò rapidamente lungo il declivio e divise le due pendici del giogo: Ashanti era già sul versante più alto del crinale, quasi pronta a discendere il pendio che conduceva all’altra vallata; Eleion, a poche falcate di distanza da lei, ormai profondamente affaticato dalla lunga corsa, era ancora sul versante inferiore dell’avvallamento quando vide la terra aprirsi a poca distanza da sé. Il giovane cervo deviò bruscamente la sua corsa, scartò, si impennò, rotolò a terra e infine si rialzò quasi sul ciglio della spaventosa voragine. Ansando, col cuore in tumulto, guardò. E vide che la montagna era divisa da una grande ferita, che il bosco era devastato, che l’aria era impregnata di odori infidi e sconosciuti. Guardò e vide che era solo. Ashanti, ormai lontana, giaceva sfinita al riparo di alcuni alberi sull’altro versante del giogo. Ma lui non poteva vederla. Il giovane cervo atterrito vedeva solo lo spazio fumoso e cupo della voragine che attraversava il pianoro, sentiva gli odori acri che da essa si sprigionavano e i minacciosi tonfi dei detriti che a tratti vi precipitavano. Eleion tremava e ansava per il terrore e per la folle corsa: ritto sulle zampe vibranti di energia stette immobile per un eterno, interminabile attimo, una misura di tempo indefinibile che pure sembrò dilatarsi e invadere lo spazio della sua vita, fino ad allora libero e luminoso. Quell’attimo di fuoco era l’istante del terrore, della gelida paura, della pungente solitudine. In quell’attimo infinito Eleion vide se stesso senza più forza alcuna, senza aiuto alcuno, senza speranza di vita, senza sguardo e senza luce: un essere finito. Ma così non era. La luce venne, e accecante: nell’alba pallida, dal cielo plumbeo esplose il bagliore di una interminabile rete di fulmini e saette, diaboliche ferite che laceravano le nuvole viola e accendevano miriadi di fari in ogni punto del cielo. E ogni lampo di luce, colpendo alberi, rocce, rami e qualunque elemento del tormentato paesaggio, creava ombre che saettavano nere contro la montagna. Fu così che ad un tratto Eleion vide la propria ombra. Per un lungo momento vide il suo agile corpo stagliarsi in tutta la precisione delle sue forme, nero di un nero perfetto contro la superficie abbagliante del fianco della montagna, dilatato dalla lontananza. Fu una visione illuminante, fu un attimo, ma essenziale. Quando Eleion vide la propria ombra vide se stesso, vide se stesso al di là del possibile, al di là del limite delle proprie forze e del proprio peso. Forse semplicemente impazzì o si dimenticò della paura. Vista la sua ombra di là dal baratro la seguì e con un balzo inimmaginabile sfidò la morte e volò con le zampe e il capo protesi oltre il vuoto, lo sguardo proiettato molto lontano, forse verso un sogno o un miraggio affascinante. Incredibilmente, atterrò poco oltre il ciglio opposto della voragine. Poi si rialzò e fu colto da un grande stupore. Il mondo oltre il baratro della paura gli sembrava diverso. Lentamente, guardandosi indietro di tanto in tanto, raggiunse Ashanti all’inizio del bosco.

I due cervi si salvarono. Raggiunsero la valle delle Gemme e vissero ancora moltissime lune. Eleion, il figlio del sogno della cerva purpurea, nacque due volte. Nacque prima dal sogno di Ashanti, e nacque infine nella notte del grande tuono, quando si formò il suo cuore.

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